Ricorda

Il passato è una bestia strana: una cartolina sul frigo, un murales scarabocchiato su un muro.

Che cos’è questo bisogno di riesumarlo costantemente come matrone imbellettate intente in una marcescente seduta spiritica – di tenerlo legato al polso come un cane rabbioso al guinzaglio?

Il passato è qualcosa che ti accompagna costantemente, un po’ come l’odore della propria pelle: ce l’hai addosso. Puoi cercare di nasconderlo o alterarlo, puoi perfino fingere che non esista, ma non c’è un reale sistema per liberarsene.

Deve esistere, da qualche parte, un universo che si espande e respira e si alimenta con il passato delle persone.

Nel reparto di psichiatria di luglio, si addensavano tempeste di passato.

NON VOLEVANO PERDERE I RICORDI DI FAMIGLIA!” tuonava ogni tanto, rompendo il breve silenzio tra il dopo pranzo e la terapia delle 16, dalla bocca di un vecchio sordo. Guardava sempre avanti, che fosse un muro, una finestra, la tua faccia o la televisione spenta, eppure non vedeva altro che quello a cui era costantemente rivolto (indietro).

Una donna di mezza età con i capelli tinti di rosso si aggirava furtiva per le stanze degli altri alla ricerca di qualcosa di cui appropriarsi: un paio di pantaloni che pensava le fossero appartenuti, una spazzola, delle sigarette. Raccontava a tutti di aver goduto di una vita intensa fino a che non aveva perso: i soldi, la famiglia, la sua identità.

Mohamed si incideva sulla pelle le tacche del suo percorso. Non voleva privarsi di niente, non voleva dimenticarsi di nessuna offesa, alcun sopruso, alcun momento di disperazione. Sputava gli psicofarmaci dalla finestra della sala fumatori mirando tra le sbarre come un cecchino e poi si chiudeva al cesso, con una lametta per farsi la barba e l’ennesimo tatuaggio di sangue sulle braccia forti. Gli erano occorse quasi due ore per raccontarmi la sua storia; mi faceva spaventare, piangeva lacrime amare per sentirsi ancora in bocca il sapore della cattiveria che aveva già dovuto ingoiare in Francia, e mi chiedeva tu puoi aiutarmi?

Passavamo il tempo giocando a briscola. Ancora una partita? A chi tocca fare le carte? A chi tocca pescare? A me? Ah, tocca a me? Scusate, sì, tocca a me. Per giorni, la mattina, il pomeriggio, la sera. Il giorno dopo ancora: la mattina, il pomeriggio, la sera, per non pensare, per costringersi a restare lucidi, per imparare a fare qualche cosa, per guadagnarsi la vittoria di qualcosa, foss’anche soltanto un fante o un tre di denari.

A Marisa tremavano talmente le mani nodose da non riuscire a mescolare il mazzo, ma quando si giocava a coppie ti comunicava tutto quello che aveva o di cui era priva solo con gli occhi, sgranati e lucidi sopra ad una faccia ammutolita. Sembrava ferma in una pausa tra l’assenza di passato e l’assenza di futuro.

Spesso si rideva; il the caldo della merenda diventava un aperitivo, il panino messo da parte dal vassoio del pranzo un buffet freddo, la camomilla della buonanotte meglio di un rhum e coca, il corridoio deserto che portava dalle stanze dei degenti alla sala comune una passerella per nottambuli, le canzoni sbraitate dal cellulare la colonna sonora di tante teste in disordine. Ognuno aveva qualcosa di risibile, soprattutto noi stessi.

Marco invece si riposava. Era arrivato piegato, un mucchietto d’ossa contorto sulla sedia a rotelle del reparto con la bava alla bocca urlando a pieni polmoni di fermare tutto, di fermare tutti, di fermare lui. Parlava cinque lingue diverse e aveva più ricordi di viaggi e lavoro e pensieri di quanti riuscisse a sopportarne; raddrizzare la schiena, per lui, era faticoso come cercare di raddrizzare un cucchiaio accartocciato. L’ultimo giorno, trolley alla mano, una ricetta come un salvagente nella borsa, avevo bussato alla porta chiusa della sua stanza.

“Fai tutto quello che vuoi fare”, mi ha detto. “Ma fallo con calma.”

In camera mia avevo preparato la valigia piegando i vestiti davanti all’occhio spaventato di Mohamed, fermo contro lo stipite della porta. Tutto quello che sono stata in grado di dargli è stata la maglietta di un ragazzo cileno dimenticata a casa mia. O forse regalata.

 

 

 

Ricordaultima modifica: 2020-09-06T17:41:55+02:00da rossololita5
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