Il bello della diretta

Scappare, in un posto sicuro. Subito. Domani.
Dove puoi andare in questi casi, quando senti che tutto ti costringe attorno a braccia, gambe, al cervello? Quando vuoi uscire dal cerchio, vuoi tornare ai margini perché ami Brescia ma Brescia appare un posto incerto come un altro?
Chiamo mio fratello: Ciao
Ciao! Come stai?
Eh, così. Mi serve aiuto. Voglio chiamare l’ambulanza (rumore di sirene acute in sottofondo.)
Ne sei sicura?
Sì sì, è abbastanza. Ho bisogno di stare in reparto con quelli come me, che capiscono come mi sento. Loro sono come me, capiscono meglio; con quelli non c’è bisogno di spiegare troppo
Ma no, tu non sei come loro. Hai bisogno di parlare e sfogarti. Vieni a stare da me, no? Vieni a Milano per qualche giorno
Va bene. Ci penso. Grazie (Riattacco. Ci penso.)
Il divano fissa la portafinestra che dà sul balcone. Allora abbasso completamente la tapparella, mi abbozzolo nel plaid e sono stanca, stanca. Esausta. Sono quasi due mesi e mezzo che procedo a pugni stretti, le spalle curve, che tengo duro. Mio fratello mi aveva chiesto ma che ci stai a fare, là a Brescia? Fai la resistenza?
Guardo i telegiornali, leggo le notizie, vado a votare… Quando guardo i telegiornali e i bombardamenti e le fosse comuni e il conteggio dei civili morti ammazzati, scoppio a piangere come una fontana. È come assistere a un lento sistematico stillicidio di anime parenti. È più forte di me: m’immedesimo, compatisco. Patisco le pene dell’inferno. Sodalizzo.
E a seguito delle elezioni ho il terrore che il fascismo riprenda il suo passo duro da scarpone, il saluto romano, le vessazioni e tutta quella roba là, che riempie tutti quei libri stampati là.
Mi avvoltolo nel plaid e non mi sento al sicuro. Temo un disastro: una mente perversa che dica: cominciamo da questa. Tiriamogli una bomba, mitragliamo la tapparella di ‘sta tizia, così, per divertimento. Facciamole sentire che il fascismo sempre serpeggia a Brescia, che non è morto, e poi lei è solo una delle tante gazzelle azzoppate cui imporre chiara presenza.
Per fortuna mi addormento. Male, ma dormo, perché tra una manciata d’ore prenderò il treno, mi rifugerò a Milano da mio fratello che mi vuole bene e spesso mi guarda con occhio bonario e comprensivo.
Ma sì, mi sveglio, preparo una borsa di abiti di ricambio, tento di tenere a bada l’angoscia. Arrivo in stazione sudata fradicia (forse sembro una scappata di casa). Ho qualche problema a comprare il biglietto perché mi tremano le mani. Mi rendo conto delle associazioni mentali che mi sbocciano in testa come fiori velenosi; è come essere sul set cinematografico di Invasion: devi scappare dai mostri, ovvero da quelli senza espressione, senza emozioni. Non devi farti accorgere, loro non sudano. Loro non provano nulla. Non sono neppure esseri umani, ormai.
Mi calmo a sufficienza da riprendere contegno, do qualche colpetto d’assestamento alla mia maschera facciale e pure alla mascherina FFP2, che aiuta. Invento l’occhio vuoto e vigile che scorre le notizie sul display del telefono nonostante lo sforzo per restare sveglia. Sono davvero esausta, le palpebre pesano, e se mi addormento sul treno dove andrò a finire?
Quando arrivo a destinazione passa un tram con una pubblicità sulla fiancata. È colorata con i sette colori della Pace o dell’inclusività. Traggo un lungo respiro di sollievo. Eccomi, oltre l’arcobaleno. Sono a Milano, sono al sicuro. Ho scavalcato l’ostacolo oltrepassando la linea del cerchio. In questa città ci sono diverse sentinelle e non può accadermi nulla di male.
Aspetto che mio fratello abbia terminato di lavorare sedendomi al tavolo esterno del bar della via nella quale abita. È un posto carino, c’è una donna di mezza età che chiacchiera al cellulare, accento meridionale, faccia simpatica, grassottella. Ma basta un niente a farmi scampanellare nella testa una miriade di paure. Sono braccata, sanno dove mi trovo perché dopo aver preso il taxi ho fatto degli errori da principiante, perciò chiamo P e crollo, confesso: è tutta colpa mia, sai. Sono un mostro. È colpa mia se mio padre è morto, sono una criminale. Voglio costituirmi, dovresti chiamare la polizia.
P non si scompone di un grammo, anzi, mi scudiscia addosso una battuta: sei a Milano, no? E allora vai. Vai alla Polizia sulle tue gambe. Mica quelli fanno servizio Taxi.
Giusto, giusto, hai ragione – mi sento la stupida più stupida che ci sia. Non è ovvio? Devo andarci io da quelli, a dirgli mettetemi in galera perché forse in quel mese, lavorando e incontrando gente, mi sono beccata il Covid e poi glie l’ho portato in casa… Io. Io, la figlia. Non sarebbe terribile, se ne avessi la certezza assoluta?
Ad ogni modo mi alzo e vado, cerco la scritta Polizia aiutandomi con il navigatore e mentre cammino tra le persone, nelle vie, aspetto che i semafori diventino verdi, ho la certezza di essere un mostro. Ho i capelli mossi e crespi, ho indossato gli occhiali da sole perché la luce m’infastidisce, indosso una maglietta nera con le margherite sotto la giacca nera di pelle. Penso che qualcuno, vedendomi, mi scansi e di fargli ribrezzo. Hanno ragione, sono una strega del cazzo, con quei capelli mossi che mi scivolano giù lungo tutta quanta la schiena, e dietro le lenti scure ho gli occhi arrossati e le borse. Poi la batteria del telefono si esaurisce (ciao bella, ciao – aveva detto la signora con l’accento meridionale del bar) e sono fatta: ormai dovrò girare per Milano cercando l’insegna della Polizia a testa alta. Guarda Milano, si ripete nella mia testa come un invito sarcastico. Guarda Milano… e prima di esserne venuta a capo mi rendo conto che sto camminando da parecchio, ma l’evenienza di andare a costituirmi alla polizia su un taxi m’irride totalmente, è da Pazzi. E poi chi sei, Totò Riina? Un mafioso penitente? No, cammina. Consumati le suole delle scarpe. Non eri te, quella che girava per i centri storici a Genova e Bologna e a Roma e alla quale piace tanto perdersi?
Bene. Adesso giri tra le vie di negozi e bar e ristoranti e ti sei persa, sei priva di tecnologia e sei esausta. Ma in questa zona di Milano non esistono panchine per riposarsi, né marciapiedi per sedersi al pari dei barboni. No no, al massimo ci sono le grate davanti agli istituti di Credito. E così, se sei stanca, occupi il sedile della fermata dell’autobus, però sono a disagio. Nella mia testa c’è ancora l’irrisione sarcastica del: che fai, carina? Hai perso il tram?
Mi rialzo e riprendo a camminare. Se così dev’essere così sia. E l’altra opzione la conosco bene. Potrei ammazzarmi e fine. Ciao. Ciao, bella. Ciao.
Ma che cazzo? – mi dico. E se esistesse davvero l’inferno? Esiste l’Inferno oppure il Purgatorio per chi si toglie volontariamente la vita? Non mi ricordo ma non ha importanza. Ne sono convinta: se ti infliggi una morte violenta fili dritta all’inferno, e che cazzo! No. Se devo lanciarmi sotto un’auto o un tram in corsa, l’ultima cosa fatta sarebbe un gesto da stronza. Coinvolgerei un tizio a caso, traumatizzandolo, gettandomi davanti al suo parabrezza. E non riesco nemmeno a trovare ponti e cavalcavia, perché ho la batteria del telefono scarica, e pensandolo approdo davanti al Cimitero Monumentale. Sicché oltrepasso il cancello spalancato, ché prima di morire io mi faccia un bell’esamino di coscienza trascinandomi tra le tombe, che sono veramente bellissime: i fiori, le statue, il marmo, la pietra bianca venata di nero, il granito. Ma soprattutto le statue dei santi che non mi guardano; volgono il viso, stornano lo sguardo, hanno una mano posata sugli occhi, hanno il capo chino. È terribile, mi stanno respingendo e giudicando. La mia vista li ripugna. Una bambina di sei o sette anni chiama: Mamma! allarmata, mentre le cammino oltre.
Allora decido ed esco dal cimitero riprendendo ad andare. Ho le piante dei piedi in fiamme. Mi fanno male le caviglie. Sono accaldata, ho la bocca arida e amara e ho sete. Entro in un bar e il proprietario è un uomo sulla cinquantina. Gli dico: ho bisogno di aiuto, chiami l’ambulanza.
E lui: Cos’è che si sente?
Ed io: Voglio morire. Mi voglio uccidere. Sono una persona orribile, chiami l’ambulanza, per favore. Mi vergogno troppo.
Allora il barista mi chiede se voglio sedermi, se voglio un bicchiere d’acqua. Io rifiuto perché sto già approfittando del suo cellulare e della sua gentilezza.
L’uomo chiama l’ambulanza e di fronte al bancone c’è uno specchio orizzontale lungo e largo un paio di metri. Sono un mostro. Sono una strega. Ma non riesco a uccidermi perché sono vigliacca. E nemmeno possiedo l’intelligenza necessaria per arrivare alla Polizia.
L’uomo fa ciò che deve e poi mi consola perché a ogni domanda che mi rivolge scoppio in un pianto dirotto, neanche cerco di trattenermi, oramai sono priva di dignità.
E lui chiede: di dove sei? Perché credi sia giusto ucciderti?
Ed io rispondo: sono di Brescia, e che non c’è spazio per gente come me, al mondo. Bisogna lasciare posto a persone migliori, con vite e pensieri migliori. Siamo in troppi sulla Terra, voglio levarmi di mezzo.
E lui dice: anch’io ci sono passato. Ho fatto cose di cui non vado fiero e poi sono migliorato. Ho vissuto per strada e ho incontrato delle persone che mi hanno dato una mano. Non lo sai – domanda – che c’è solo un Bar Sant’Orsola a Milano e che ce n’è un altro proprio a Brescia?
Mi dà il bicchiere d’acqua e continua a parlare finché non sono calma, finalmente. Ho smesso di sudare, ho smesso di tremare e ho bevuto un goccio d’acqua, quasi non piango più.
Alla fine mi accompagna fuori (non ho le manette ai polsi), mi accompagna dal paramedico dell’ambulanza e si raccomanda: quando stai meglio torna a trovarmi, che ti offro un caffè – e mi stringe la mano.
– No, il caffè te lo offro io, gli dico.
Contraccambio la stretta; mi sento al sicuro. Tra poco sarò in ospedale e andrà meglio, trascorrerò un po’ di tempo tra persone che hanno tentato di recidersi le vene dei polsi, che non mangiano, non dormono, che borbottano parlando a sé stesse, eccetera. E mi sentirò meglio perché sanno cosa sento senza dover troppo spiegare.

Il bello della direttaultima modifica: 2022-11-14T17:24:29+01:00da rossololita5
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