Encantada

La cosa più bella a Santiago de Compostela era la pioggia. E il vento incessante.

Gli ombrelli, dopo il primo giorno di ricognizioni tra bar e locali, erano risultati del tutto inutili. Restavano troppo spesso dimenticati in un angolo di fianco al bancone, sotto lo sgabello, abbandonati prima della chiusura; fustigati e messi alla prova dalle raffiche dispettose con cui si era costretti a litigare o scendere a patti. Meglio andarsene in giro con il cappuccio del cappotto tirato sulla testa a impregnarsi di acquerugiola, per poi svaporare umidità come caffettiere dentro al pub affollato.

Lo scopo del viaggio era di salutare Fernando che tornava in Brasile, e Francesco era venuto a prendermi a casa con il Furgone dei Cattivi, il minivan nero con i vetri oscurati da spacciatori colombiani e lo specchietto retrovisore destro inutile e opaco come l’occhio di un guercio.

Alla festa, Fernando si era fatto largo tra i palloncini colorati col sorriso dello Stregatto: sgangherato, i capelli paglierini spartiti assurdamente da una treccia e un codino. Ogni volta che lo guardavo in faccia ridevo di un’allegria sconcia, come leggendo nel suo sguardo un susseguirsi di risposte da saggio folle.

Appena arrivati avevo fatto un giro da sola per il centro pomeridiano. Saracinesche abbassate, negozi chiusi e strade deserte; le piazzette e gli scorci delle mura dei palazzi con il muschio sulle facciate mi si paravano davanti in silenzio e all’improvviso. Ero entrata in un bar dall’odore di taverna con scaffali di libri e murales colorati alle pareti e mi ero sentita più serena di quanto fossi stata da mesi.

Con Edoardo mi ero già accapigliata prima di arrivare in Galizia. Aveva superato i controlli al check-in con l’aria stralunata di chi ha corso come un pazzo tenendo tutto sotto un controllo che non ha perso per un pelo, arrivando direttamente da Genova:

«Non ho sentito suonare la sveglia».

Dal Capodanno dell’anno prima mi aveva lasciato un retrogusto ambiguo in bocca, l’effetto guardingo di qualcuno che è abituato a essere socievole restando imperscrutabile e torbido come l’acqua sporca di un risciacquo.

In aereo avevamo chiacchierato in equilibrio sul filo delle buone maniere e un certo istinto allo scontro sotterraneo. Dopo qualche minuto mi aveva accusato di presunzione e considerato che dovessi essere un tipo incazzoso. Io gli avevo consigliato di togliersi quella scopa che sembrava avesse infilata nel culo e gli avevo ricordato che sul mio conto non sapeva un cazzo. Mi ero sentita come se qualcuno mi avesse dato una botta sulla fronte per arrestare un galoppo frenetico, imponendomi di frenare, stare ferma un attimo. Calma.

Fra si era addormentato di colpo subito dopo il decollo, la nuca riversa all’indietro contro il poggiatesta e la bocca spalancata che gorgheggiava, l’espressione disarmata e comica identica a quella del vicino. Quello che dovevamo fare era stato programmato in una lista condivisa su whatsapp alla quale aggiungeva più roba di quanta riuscisse a spuntare.

Nel tardo pomeriggio era andato in farmacia. Era felicissimo; poteva fare incetta di alcuni medicinali senza bisogno della ricetta medica. Ridevamo e lo prendevo in giro per le sue ipocondrie. È fatto così Francesco “El Maracas”, con le sue tasche piene di medicine e palliativi sonanti, i dolori reumatici e i vocali da dieci minuti incomprensibili, farfugliati nella nebbia dello Zolpidem durante i mesi d’insegnamento in Massachusetts.

Comunque c’erano tante cose da vedere, da mangiare, da bere e da fare, secondo lui, tra cui palpare il fondoschiena dell’amico neanche fosse un rituale turistico al monumento storico del Paese. Io non mi preoccupavo di nulla, ero in vacanza e spartivo la camera dell’ostello con due maschi, non conoscevo nessuno e non parlavo spagnolo.

Francesco mi aveva già fatto una rapidissima cronistoria di quasi tutti i presenti. Chi fossero, cosa facessero, cosa avessero fatto e cosa avrebbero voluto fare come in un teleromanzo latinoamericano con il sunto delle puntate precedenti. Cercava di farmi entrare nella giusta ottica di idee, di farmi inquadrare i suoi amici ancora prima di vederli con i miei occhi per farmeli vedere con i suoi. Questo è Avelino, lui è Fernando, lui è Manolo.

Fernando mi si era piazzato davanti senza spiegazioni mentre la musica e la folla di ragazzi ci avvolgeva o sfiorava appena. Mi aveva disegnato un triangolo sulla fronte con un pennarello. Io gli avevo inciso un punto interrogativo sulla tempia.

«Tu credi in Dio?» mi aveva chiesto come un giornalista. Durante il tragitto verso il locale avevamo condiviso una canna. Eravamo stati in un posto con le luci al neon, i muri ingialliti, i vecchietti seduti sulle panche a giocare a carte e a bere vino rosso da scodelle di ceramica bianca rabboccate fino all’orlo. Per cena traghettavamo da bar a bar, da un pinchos all’altro. Le cozze bollenti che ti ustionavano la lingua e ti davano la mazzata finale del pepe fin su nel setto nasale. Albondigas succose che ti impastavano la parola come un farfuglio. Ensaladillas grasse e oliose che ungevano labbra, dita, perfino gli occhi, dopo averne spalmato un cucchiaio sul pane – e ovviamente uova fritte e prosciutto crudo, fette di embutido odoroso di cantina e bocadillos di ogni genere.

«Quale credi che sia il senso della vita» mi aveva chiesto poi, con lo sguardo di sfida del tuffatore esperto sul picco dello strapiombo. Mi ero sentita in trappola, minacciata.

«Vieni fuori con me?» avevo chiesto a Edo, ma non ero riuscita ad arrivare alla porta. Seduta al primo tavolo libero mi era sembrato tutto troppo forte: le voci della gente, i colori dei loro abiti, il calore dei loro corpi, l’odore delle tapas.

«Cosa fai, Cri? Stai male?»

«Sì. Devo mangiare qualcosa».

«Ah, brava». Aveva preso una sedia e mi aveva guardato inforchettare una tortilla con la fretta di chi sente il sangue defluire dalla testa per finirgli oltre i piedi freddi, aspettando.

«Raccontami qualcosa, così mi riprendo».

Mi ero fissata a studiarne i dettagli cercando di tenere la vista a fuoco. Avevo pensato che avesse una fisionomia simpatica con quell’aria arrogante, quel sorriso da piacione, la faccia del genovese da sberle. Grasso senza sembrarlo, gli occhi azzurri belli, le orecchie da elfo. E che qualcuno gli avesse spaccato il naso perché era aquilino e piuttosto schiacciato.

Negli ultimi due anni avevo visto parecchie fisionomie particolari. Occhi da peruviano, capelli biondi, labbra da moro. Nessuno era stato capace di fermarmi.

Il centro storico era magnifico. Dopo ventiquattr’ore ti rendevi conto che non c’erano macchine, motorini, autobus, clacson, puzza di smog, semafori, strisce pedonali, orologi. Un microclima fatto di gente che sorrideva camminando e la signora che ci aveva dato in affitto la camera era arrivata al bar sbilenca dal peso della sporta di dolci per i nipotini. Era seduta a chiacchierare compitamente con Fra e mi era sembrata una vecchia Santa Lucia. Aveva mostrato il suo bottino schiudendo appena la borsa, una punta di orgoglio guardingo.

Ogni pomeriggio ci svegliavamo alle tre. Edo smanettava con il telefono, il sorriso stropicciato da gatto fulvo. Francesco si stiracchiava, allungava i muscoli delle braccia lunghe, si passava le dita fra la barba crespa da talebano nel suo pigiama di Guerre Stellari e io guardavo in su, verso la parte superiore del letto a castello dove dormiva Edoardo lasciando vagare lo sguardo e la sensazione di nulla quieto di cui a casa non godevo mai. Mi sentivo fuori dal mondo.

Una sera avevamo cenato sugli scavi della città vecchia. I lastroni di vetro sul pavimento erano illuminati dal basso e si poteva camminarci sopra, buttando lo sguardo al di sotto, nella voragine di gallerie e stanze di arenaria. Quella successiva eravamo stati in un vecchio mulino restaurato. Al centro del canale di scolo, al centro del locale con le tavolate di legno e gli attrezzi di rame e ferraglia, la ruota stava immobile e l’umidità che traspirava dai muri ci faceva rabbrividire. Sopra la parete di calce c’era la sagoma in filo di ferro di una coppia che si baciava nascosta dall’ombrello aperto.

Qualche volta Francesco mi traduceva le conversazioni dei suoi amici in italiano, piegando la testa da un lato e posandosi le dita sull’orecchio per simulare l’ascolto del traduttore simultaneo attraverso un auricolare. Sul divanetto di velluto color porpora, invece, se ne stava seduto come meditando solo, avvolto nel suo silenzio personale quieto e brillo, mentre gli altri ballavano. Quel pomeriggio ci aveva portato a vedere la Cattedrale e la sagoma del pellegrino che aspetta l’amore, fatta di ombra. Mi aveva chiesto:

«Riesci a vederlo?»

Ero uscita a fumare e avevo chiacchierato in inglese con la ragazza di Avelino. Ci eravamo spartite una sigaretta e poi ascoltato una canzone con youtube. Quando era rientrata mi aveva raggiunta Edoardo e baciata contro al muro. Eravamo rimasti all’ingresso del locale a lungo, con la sensazione del cappotto umido, la pioggia che ci bagnava la fronte, i capelli disordinati e il collo tiepido.

Quando si erano aggregati anche gli altri, eravamo andati a fare colazione e poi a parlare in strada. Un paio di franchisti e Avelino avevano discusso di politica. Eravamo attoniti davanti al personaggio con la giacca a vento lucida, una faccia che celava l’attesa della provocazione verbale, eventualmente fisica. Prima di andarsene aveva allungato la mano perché glie la stringessimo. Avrei preferito leccare il marciapiede sporco, e avevo tenuto le mani al loro posto, educate.

Un ragazzo pallido e alto, invece, aveva mitragliato Edo con una quantità di parole, incontinente come l’argine di un fiume che collassa e lascia irrompere una corrente inquieta. Sembrava troppo fatto, troppo felice e con troppa urgenza. Io avevo preso Edo per mano senza capire una sola parola ed ero rimasta lì, dentro al suo palmo mentre il cielo si schiariva.

«Che cosa ti ha detto?» gli avevo domandato al ritorno in ostello.

Ci aveva pensato su un momento e poi aveva scrollato le spalle, guardando a terra.

«Che ho degli occhi bellissimi».

L’ultima sera avevamo dormito abbracciati nel mio letto e la mattina seguente avevo trovato ancora del muschio attaccato alle trame del cappotto. La merenda al Mercado de Abastos era stata diluita dalla cagna fresca, le ostriche e il pulpo alla gallega che si scioglieva sulla lingua.

Sull’aereo al rientro in Italia mi era crollata addosso una cupa furia, un’ostinazione triste e una disperazione spossata, mentre gli cingevo la vita e gli tenevo la testa appoggiata sul petto. Dopo quattro giorni a Santiago de Compostela la cosa migliore che ho imparato è stata che per congedarsi da qualcuno che si è incontrato o conosciuto, si usa questa parola: encantada.

Encantadaultima modifica: 2020-08-01T17:04:15+02:00da rossololita5
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