John Lennon

Come si può smettere di scrivere? Come dire: si può smettere di esistere?

C’è chi lo fa. Veramente, c’è gente che lo fa, tutti i giorni, ogni giorno.

Io l’ho fatto; saranno tre anni. Non me n’ero accorta. Un po’ come quando per un attimo si trattiene il respiro e ci si rende conto. E si torna a respirare.

Comunque non pensavo mi sarebbe successo. Uno non pensa di crescere, che gli possa capitare di diventare grande. Io a un certo punto ho scoperto che per tre anni non avevo più scritto. Niente poesie, niente pensieri, niente emozioni. Niente di vero.

Vuol dire che non mi sono più innamorata. Dopo Dario.

Sono stata molto indaffarata a fingere la sicurezza, la felicità, la banalità. La banalità è stato il mio hobby in questi anni. Il tenermi a galla abbracciata a un salvagente comodo e noioso. La mia ultima storia ne è l’esempio. Giuliano.

Che noia. Lui e il mio non voler perdere tempo. Lui e il suo metro e novanta e le spalle larghe e brutto da ridere. Brutto in modo eccitante, che sembrava avesse l’ansia negli occhi. Comunque non mi ha annoiato per molto. Dopo tre mesi è scappato, ha tagliato la corda. Era piuttosto pigro, l’uomo più sentimentalmente pigro che abbia conosciuto. A trent’anni non aveva mai avuto una ragazza.

All’inizio ero furente, e frustrata. Tanto tempo a fingermi carina e normale e quello sparisce senza che io fossi nemmeno riuscita a fargli saltare lo scoglio della verginità.

Che sconfitta! Che delusione!

A volte mi parlava o mi guardava come se gli risultassi sgradita. Forse aveva ragione. Come con Sandro. Che splendida fregatura che mi ha dato. Anche lui con il suo metro e novanta, le spalle larghe e la vita sottile. Ma lui lo trovavo molto carino. Aveva i capelli tagliati da bravo ragazzo, gli occhi grandi e un lieve difetto di dentatura. Aveva mani da pianista, bianchissime con cui mi toccava le dita, il dorso e i palmi. Sembrava che con le sue mani volesse comunicare con le mie e mi piaceva tantissimo. Già solo il suo nome Sandro mi usciva di bocca come una promessa.

Adoravo il suo nome e il suo bel lavoro di geometra che, secondo i miei stereotipi di allora, voleva significare ambizione, serietà, cultura. E lui li rappresentava alla lettera, con quei golf di lana sulle camicie inamidate e i pantaloni casual di velluto a coste. Si vestiva da bravo ragazzo, senza gusto, e sorrideva e diceva ciao e ti offriva da bere e s’informava sulla tua salute, tutto da bravo ragazzo. Era un misto di pulizia e malizia. Ammiccava e tirava fuori frasi a sfondo sessuale con la stessa disinvoltura con cui mi pagava il conto.

Ho speso un anno a chiedermi se fosse idiota o di una furbizia geniale. A capire se in realtà, con il suo profilo basso e la sua aria perbene da ragazzo distratto, non ci stesse prendendo tutti in giro. Era incredibile la quantità di luoghi comuni o frasi fatte con cui riusciva a imbastire una conversazione di cinquanta minuti. A volte avevo l’impressione che mi si sarebbe staccata la mascella e che mi sarebbe cascata nel bicchiere dell’aperitivo come una dentiera – TLACK! –

Eppure mi ammaliava, e tornavo a casa col cuore che galoppava e la risata e il singulto in fondo alla gola. Emozionata e pazza. Partita. Cotta.

Mi piaceva molto il suo odore, che era un misto di profumo, muschio e foglie autunnali. Una volta mi aveva abbracciata e tutti i muscoli del mio corpo si erano sciolti all’istante in un completo stato di abbandono. Avevo pensato che fosse fantastico. Quando veniva sua madre in negozio per comprargli una cravatta – una cravatta per il compleanno di Sandro! – mi tremavano le gambe e mi sembrava di muovermi alla velocità di un frullare d’ali, come una bestiolina impazzita e felice.

Mi faceva dannare l’anima, e più mi faceva dannare e più lo desideravo.

Lui beveva, beveva tanto. Diceva: mi piace, bere. Al bar, dopo il lavoro. E la barista, una morettina in miniatura con la coda di cavallo, mi diceva: prima non beveva. Andava a casa a cena, a lavorare ancora. Non beveva mai.

Lui beveva come fosse un merito o un castigo perché dopo aver vissuto una storia a distanza di sette anni con Laura (che ne valeva la pena) si meritava un certo abbandono. Finiva un bicchiere e ne chiedeva un altro, ma non era brillo, o allegro. Era triste. Era sempre cinico e triste.

Mi chiedeva come si può avere una storia così per sette anni, lui qui a lavorare, lei in Sardegna che doveva salire quando avesse preso la laurea, che si dovevano sposare e lui già aveva cominciato a comprare i mobili, aveva già comprato casa per loro due insieme, come si può lasciare qualcuno per telefono, dopo sette anni quando lui le aveva dato tutto e l’aveva portata in certi posti bellissimi che la facevano esclamare commossa, innamorata: “in che posto mi hai portato, Sandro! Che posto!?

Io non lo sapevo, però volevo dirgli di smetterla di bere tanto, che si va avanti. Tutti vanno avanti, che uno non può ridursi così, come uno straccio fradicio e quell’amarezza e lo sguardo vuoto e pesante, pesante al punto che a volte tornavo a casa e non ero emozionata-pazza-partita-cotta ma disperata e sconsolata a mia volta. Mi lasciavo contagiare dal suo umore e avrei voluto stringerlo e fargli sentire che era fantastico. Pensavo fosse coraggioso, uno che soffriva così, che aveva amato così. Che poteva amare ancora così. Ma lui voleva solo bere.

Voleva che restassi lì con lui. Io mi alzavo: stanca, pesante. Dovevo andare. Lui si intristiva come un cane bastonato che abbassa le orecchie e mi diceva te ne vai? – come se fosse una colpa – Mi lasci solo?

Mi porgeva il palmo aperto, sapendo che gli avrei dato la mano. Mi diceva tu sei la ragazza giusta al momento sbagliato. Prima non ero così. Saresti stata perfetta. Sei proprio il mio tipo di ragazza, ma al momento sbagliato.

Io pensavo: tornerai a essere come prima. È impossibile cambiare. Poi si torna come prima. Poi andavo via camminando veloce, a passo di marcia schiacciando l’asfalto tanto ero pesante.

Pensavo: cosa significa che sono la ragazza giusta al momento sbagliato? Se sono giusta al momento sbagliato, allora sono la ragazza sbagliata.

Tutte le domeniche mi svegliavo felice, con il sole che entrava dalla finestra e il vento caldo che muoveva le tende, profumato di erba tenera. Oppure con la luce gialla della pioggia e quell’immobilità fredda, priva di accadimenti dell’inverno e speravo: oggi mi chiamerà e faremo qualcosa insieme. Erano le dieci, le dieci e mezza, le undici. E col sommarsi delle ore diventava sempre più improbabile che mi avrebbe chiamata. Non avremmo fatto niente, insieme.

Invece una mattina avevo deciso e l’avevo chiamato io. Era la domenica del suo compleanno.

Gli avevo chiesto: cosa fai?

E lui: niente.

Come niente? È il tuo compleanno!

Devo andare a comprarmi dei pantaloni.

Vengo anch’io. Ti accompagno. Posso?

Sì, grazie.

Ogni volta ringraziava. Quando mi ringraziava vedevo tutto rosso. Mi faceva dannare. Mi fermavo al bar e lui beveva e poi mi ringraziava. Grazie per la compagnia. Come se in fondo non contasse.

Eravamo andati al centro commerciale e lui sembrava seccato di doversi comprare dei pantaloni. Non si può essere tristi quando si comprano dei pantaloni, serve essere pratici. Io lo guardavo mentre studiava i capi esposti sopra gli scaffali. Blu. Neri. Marroni. Era scocciato.

Se ne provava un paio, non andavano bene. Io restavo ai margini del camerino accanto alla commessa che gli forniva un parere. Forse andavano meglio quelli a sigaretta, e non dicevo niente, non ero la sua ragazza (la ragazza giusta). Bisogna avere un minimo d’intimità per accompagnare un ragazzo a comprarsi dei pantaloni.

In macchina, al ritorno, parlavamo. Questa volta per davvero. Di solito non parlavamo davvero. Diceva frasi senza senso, si lamentava, perdeva il filo, diceva frasi fatte, beveva. Quella mattina mi raccontava degli aneddoti sulla vita di John Lennon. Gli piaceva la sua musica, lo stimava. John Lennon era un cinico. Diceva: la mia canzone preferita è Imagine. John Lennon aveva tutto. I soldi, le macchine, le ville, il pianoforte. Il suo manager gli chiedeva: “John! E allora la tua canzone?” E lui: “È solo una canzone del cazzo”.

John Lennonultima modifica: 2022-07-18T02:42:39+02:00da rossololita5
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