Il carrello

Oggi mi sono svegliata presto. Ho preso la metro e sono andata in ufficio.

Mi piace molto andare al lavoro il sabato mattina; c’è meno traffico di automobili per le strade e il senso di stanchezza causato dalle poche ore di sonno di cui sono riuscita a godere dopo un venerdì sera movimentato, m’illanguidisce e rende vigile allo stesso tempo.

In ufficio ci sono solo io, il computer acceso, la luce del primo mattino che entra dalle finestre, i telefoni che tacciono. Mi preparo un caffè e assaporo la libertà di fumare una sigaretta molto prima della pausa delle undici. Mi sento scanzonata e un poco ribelle.

La libertà è la possibilità di scegliere il proprio destino.

Non riesco a ricordarmi se l’ho letto tra le pagine di un libro oppure navigando in internet.

Quando ero piccola ero terrorizzata dall’imminenza del futuro. Il peggior timore che mi attanagliava lo stomaco al buio, sdraiata e insonne nel letto col piumone azzurro dai cieli rosa e i campi verdi disegnati dentro ai cerchi, era che una volta cresciuta avrei dovuto spingere il carrello della spesa. Ero intimamente e tragicomicamente convinta che fosse un problema insormontabile. Un carrello, quando si hanno sei o sette anni, è un aggeggio piuttosto ingombrante, molto pesante e faticosamente gestibile.

Credevo che un dato giorno mi sarei svegliata (già) grande e che le ruote di quell’orribile carrello avrebbero continuato a zig-zagare per i fatti loro, come facevano ogni volta che la mamma mi permetteva di spingerlo per qualche metro. E’ un fatto della vita: sono ruote che si muovono in odiosa autonomia: si arrotolano su sé stesse, si bloccano o puntano verso direzioni catastrofiche – in genere proprio in prossimità dello scaffale con i vasetti di vetro delle verdure sottaceto e il passato di pomodoro – prendono velocità e scivolano come biglie su di una macchia d’olio.

Non mi è mai passato per la testa che crescendo sarei stata più alta e più forte. E nemmeno di esporre questa preoccupazione a un adulto per trarne un consiglio o addirittura una soluzione che mi tranquillizzassero. Poi a un certo punto ho smesso di pensarci, presa da altre problematiche o accadimenti.

Dopo un paio d’ore di lavoro mi fermo per sbucciare un mandarino. Nella stanza si sparge il suo profumo e si sprigionano migliaia di microscopiche gocce che restano sospese qualche istante nell’aria per poi svanire. Nel momento in cui addento il primo spicchio provo una sensazione che durante l’infanzia mi assaliva molto più spesso di ora, e con maggiore intensità, ma che talvolta trovo nuovamente. È uno stato di malessere/benessere nostalgico, che sembra catapultarmi fuori da me stessa.

Gli attimi in cui sono avvinta da questa emozione aliena mi sembrano trascorrere con un ritmo distorto e anomalo, ma non durano mai più di qualche secondo.

Quando frequentavo la prima elementare provavo antipatia, irritazione e disprezzo nei confronti di una bambina di nome Vera, di cui ricordo solo le gambette tornite coperte da una calzamaglia bianca e gli stivaletti con le stringhe incrociate.

Non la reputavo degna di stima perché ogni volta che sua madre la lasciava davanti alla porta della classe per andare a lavorare, cominciava a piangere disperatamente facendo parecchio baccano.

Per come la vedevo io, la più bassa forma di autoumiliazione possibile era piangere in pubblico.

Tuttavia, una mattina invernale ero scesa dal pulmino davanti al cancello della scuola e, infilando la mano nella tasca del cappotto, avevo trovato una caramella alla menta che la mamma mi aveva regalato finito di fare colazione.

L’avevo messa in bocca, succhiata e, trovandola troppo dolce per i miei gusti, sputata senza tante cerimonie sul marciapiede. Dunque mi aveva avvinta quella sensazione di malessere/benessere nostalgico, accompagnata dalla convinzione di aver compiuto un’azione che avrebbe ferito profondamente mia madre. L’avevo pensata nella solitudine della nostra casa vuota intenta a fare le pulizie con le mani screpolate e odorose di detersivo che spesso mi carezzavano la guancia, e avevo pianto.

Quando questa sensazione mi abbandona me ne rammarico sempre, desiderosa di riuscire a controllarla e farla durare più a lungo, come talvolta  accade quando si sta avendo un orgasmo particolarmente intenso. Impossibile gestirlo, comunque. Proprio come le ruote di un carrello quando si hanno sei o sette anni.

Butto la buccia del mandarino nel cestino dello sporco, torno a lavorare e smetto di pensarci, presa da altre problematiche e accadimenti.

Il carrelloultima modifica: 2016-04-08T01:32:34+02:00da rossololita5
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