La Montagna

Guardo una montagna dal basso verso l’alto mentre il sole tramonta sul lago.

E’ trascorsa una giornata in cui il cielo è stato terso e azzurro e l’aria immota, fredda e tagliente come la lama di un coltello.

L’oggi muore in un tripudio di luce dorata, in un bagliore grandioso, esplosivo come le note finali di un concerto, prima che il direttore d’orchestra abbia calato la stoccata finale della bacchetta sullo spartito musicale.

Primo Levi diceva che a un uomo serve molta forza per vivere ma che gliene serve altrettanta per morire, perché il corpo non si stacca facilmente dalla vita. Così vale anche per il giorno.

Guardo fuori dal finestrino e devo socchiudere le palpebre per godere della vista del panorama. La vetta delle montagne è avvolta dalla foschia: una bruma tanto fitta da sembrare lanugine. Sono tre, no, quattro, una di fianco all’altra come spose novelle, e ai loro piedi riposano i campi sotto la neve, intervallati da boschi infoltiti da alberi con troppi rami, tronchi troppo alti, ventagli di ossa su busti di fanciulli troppo magri.

Mi domando che piante siano: come si chiamano? Vorrei saperne il nome e perché alcune sono contorte e piegate di lato, come sospinte dalla forza di un vento perpetuo mentre quelle vicine sono spuntate dalla terra dura, dritte e composte, insensibili al travaglio delle altre.

Il lago è una tavola; riflette i barbagli del sole come una lastra d’acciaio, uno specchio spietato e bellissimo. La grana delle montagne è intagliata da crepe o insenature coperte da muschio e sterpaglia, ed io m’immagino intenta a infilarvi le dita torpide mentre salgo agganciando le punte dei piedi dentro le punte degli scarponi.

L’inverno è la stagione della memoria. Resta tutto sepolto sotto la brina, la nebbia e le maglie di una rete metallica.

Ho trascorso un paio d’ore tra le stradine acciottolate del paese dove è nato il mio cognome. Nei cimiteri riposa il sangue di mio padre e di mio nonno e delle sorelle di sua moglie. Tanti hanno l’effige sulla tomba con la piuma degli alpini infilata nella fascia del cappello. Il granito delle lapidi è addobbato da fiori di stoffa e plastica – qualcosa che non possa avvizzire o deteriorarsi per non dover accendere una macabra, ironica competizione con il caro estinto.

Ci sono iscrizioni nel marmo sopra i portoni delle case che ricordano le staffette e i sacrifici, le diramazioni di famiglie a cui sono stati amputati i figli, i sentieri e i passi valicati nottetempo. Ogni poche centinaia di metri incontro il gorgoglio dell’acqua che zampilla da una fontana; l’azzurro, il rosa e l’ocra dell’affresco scrostato sulla facciata di un vecchio palazzo. Il nome del parroco, del medico, del dotto, che ha vissuto tra serie di numeri, una sopra l’altra, con le lineette a fare da contrappunto al trascorrere del tempo, vergate sull’ottone fumigato di una targa commemorativa.

Penso a mia nipote che sta per arrivare e ho attorno al collo il tepore della sciarpa che ha fatto mia sorella. Mia nonna l’ha studiata seduta sul ciglio della sua ostinata demenza senile e ne ha contato le maglie con occhio acuto, nonostante le cataratte. L’ha tenuta stretta con le mani invecchiate ad artiglio ricordandomi che in casa, chi preparava gli scialli e le calze di lana per la stagione fredda, era sempre la donna.

Tra diciannove giorni compirò trent’anni e davvero non so ancora bene come si possa riuscire a lasciar morire il proprio passato quando anche la luce seguita a non volersi staccare, così tenacemente, dal giorno.

La Montagnaultima modifica: 2015-02-08T01:24:16+01:00da rossololita5
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