Dimenticanza

Eccoli. Sono quindi finiti i bei giorni del Vittoriale.

Quell’aria sottile e luminosa e calda e calma.

Mi ricordo quell’immobilità ombrosa, cupa, polverosa nella Prioria dove la scarsità di luce e i tanti arazzi, stoffe, porcellane, statue e tutto quanto ammassato con quell’ordine pedante – così diverso dalle nostre case materne – ci faceva sentire intimoriti, soffocati dal macigno della Storia.

Giancarlo Maroni, Nuvolari, Mussolini, Eleonora Duse, Maria di Gallese.

Davide restava affascinato e ammiccava davanti alla cornucopia di D’Annunzio. Me ne attribuiva le proprietà: l’abbondanza. Cosa mai capita. A che abbondanza mia, intima, si riferiva? Io che, di abbondante, ho solo i capelli mossi e il marrone degli occhi.

Ricordo il nostro passo cauto per le stanze del Vate come piccoli scolaretti sulla pietra della navata di una chiesa e l‘esultanza di Antonio, che suggeva il tutto facendo sì col capo, arricciando soddisfatto le labbra tumide da pesce che sguazza nel tiepido dello stagno perché, si sapeva, la Storia era il suo campo.

E poi fuori, all’aria aperta, dove potevamo cedere all’eresia di una bibita gassata: una Corona in bottiglia dal collo freddo di vetro, la fetta di limone da stuzzicare con la punta della lingua, il brivido dell’acidulo lungo le braccia nude.

E Daniela, con gli occhi verdi d’invidia che trasudava scontento, con la ruga amara tra i cigli sopra il naso e la linea dritta del muto, malmostoso dissenso sotto.

Si sudava e l’introduzione della guida alle varie stanze – della Musica, del Mappamondo, della Leda, il Bagno Blu, aveva contribuito a eccitarmi e a pervadermi di un’euforia stravagante.

Davide scherzava. Saltellava, scattava per le pietre e le piante del giardino simulando risatine da diavoletto benignano, ora fingendo di essere un satiro dagli appetiti insaziabili, ora quietandosi sul Brigantino per riflettere serioso, superomistico, su quanta voluttà, quante vittorie erotiche/militari il Vate, D’Annunzio, avesse goduto grazie al peso della parola, l’artificio della poesia, il belletto, l’orpello e i cani, i cavalli, le automobili, i debiti, lo studio, la cultura e l’abbondanza – ancora quella – di potere.

Come per ogni cosa lo vedessi acquisire, così pure la visita al Vittoriale mi palesava offrirgli evidenti spunti per riflettere su quali frutti, nella vita, avrebbe voluto addentare. E soprattutto come fare per agguantarli. Frutti che in genere digeriva per poi erompere in un sonoro rutto, lasciandomi nell’indecisione se ritrarmi con ribrezzo o scoppiare in una fragorosa risata.

Ora che resta?

La mia dimenticanza.

La mia scarsa dimestichezza con la scrittura.

La mia solida determinazione a vivere in case senza suppellettili, perché: meglio lo stile minimalista all’horror vacui.

Mi aggiro per quel pomeriggio mentre aspetto con tutta quanta la mia generazione che arrivi la primavera. Ci sono i ciliegi in fiore, per le strade, e intanto continua a piovere.

Quella sera era sceso dalla macchina; avrebbe fatto una doccia. Gli avevo spruzzato della birra sul petto con moto di stizza e sulla camicia, ma avrei passato volentieri la lingua sulla sua pelle come sulla fetta del limone nel collo freddo della bottiglia per dissetare il mio desiderio di possederlo.

Nell’aria fresca di fine giornata lo avevo lasciato andare da solo, ardendo e rodendomi a mollo nel mio brodo di rivalsa.

Il suo corpo la sua testa la sua vita, erano solo sue, ed io gli avevo negato me stessa solo per il trionfo di potermi dire: anch’io sono mia. E per quanto il desiderio mi spinga da lui, sto molto meglio senza.

Dimenticanzaultima modifica: 2014-07-05T04:09:05+02:00da rossololita5
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