Il fantasma

È stato ad agosto.

Eravamo solo io, la vecchia Bessi, la polvere bianca di gesso che si alzava dallo sterrato e il frinire ipnotico delle cicale.

Era mezzogiorno e mezzo, quasi l’una, e c’era quel caldo opprimente da colonia estiva che ti fa pensare alla siesta dopo il pranzo; alle spiagge deserte con le creste degli ombrelloni mosse dallo scirocco; alla penombra clemente dentro le case con le tapparelle abbassate a stampare strisce di silenzio sui copriletti; alle donne che si affaccendano tra l’acciottolio di piatti lavati con il detersivo al limone e il mormorio letargico delle telenovelas.

Io e la Bessi stavamo cercando la casa di Leopardi, su per le salite, giù per un tornante, fra i cipressi e i campi di girasoli, le chiesette incarcerate da ponteggi arrugginiti e i calcinacci e i cumuli di pietrisco abbandonati a scottare sotto al sole.

Mi trastullavo con le poche briciole di reminiscenze avanzate dai tempi del liceo. Pensavo alla sua gobba, il naso prominente, ad una certa adolescenza solitaria e monastica fatta di studio matto e disperatissimo.

Con l’incipit musicale e arcinoto Sempre caro mi fu quest’ermo colle nella testa, presagivo un’abitazione vetusta (o forse una tenuta) con arredi ombrosi di noce e tendaggi pesanti: lo scrittoio, il letto a baldacchino, la grande cucina, la biblioteca, le altre stanze e le eventuali informazioni sulla sua vita domestica fornite da una guida o tutt’al più un opuscolo.

“Leopardi soleva studiare e scrivere dal canto del gallo fino all’imbrunire. Cenava solo in maniera parca, frugale. Era Conte, di salute cagionevole…”, eccetera eccetera.

Giravo e salivo e scendevo, continuando a imboccare la strada sbagliata, mancando un sentiero in teoria ovvio eppure nascosto.

 

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura.

E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei.

Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare.

 

La Bessi borbottava serena, rombava, strillava un momento. Era stata la Clio di mia sorella ed era concia e ammaccata: i fanali affetti da cataratta, il volante screpolato, il cassetto del cruscotto che si chiudeva solo mezzo a mezzo restando sbilenco come una smorfia. La vernice della carrozzeria a scaglie, la targa fissata con il fil di ferro, lo sterzo duro come un timone.

Nonostante ciò, era pur sempre la vecchia Bessi, quindi sapeva il fatto suo. Era solida, accovacciata sulle ruote con la stolidità di una matriarca e agile e saputa, piena di memorie di incidenti, danni trascurati, fretta e ansie, gelate e albe tristi o gloriose.

Ma. Nel cicalare dei quaranta gradi c’era anche un altro rumore di sottofondo appena intuibile sotto al mio flusso di coscienza, Despacito e l’infinito leopardiano: una sorta di sordo trascinarsi con indifferenza il pezzo di un non so cosa.

Avevo accostato pensando che tra le buche e i dossi dello sterrato era possibile che avessi forato una gomma. Invece era il parafango anteriore che stava mollando gli ormeggi tutto pendente (ma solo verso sinistra), toccava terra, come la coda di un cane abbattuto e si consumava con l’attrito della terra.

Avevo scazzato ad alta voce in mezzo al nulla con solo il sole, un brutto occhio bollente, a fissarmi. Poi avevo ripensato a quella notte.

Era luglio e c’eravamo solo io e la vecchia Bessi e il frinire scanzonato dei grilli.

Erano le tre e mezza del mattino, quasi le quattro.

Dopo essere stata alla Festa della Radio con Francesco, avevo deciso che dovevo andare a Pertica Bassa. Subito. Immediatamente. Si trattava di salvaguardare emozioni.

Avevo guidato la Bessi attraverso le gallerie, lungo la tangenziale e poi su per le ripide salite della Valle con i tornanti e le corsie a doppio senso (solo nell’immaginario collettivo degli abitanti del posto) e lei aveva arrancato e sbuffato fino a Ono Degno con il tachimetro della benzina che si segnava dispettosamente in riserva.

Dal finestrino abbassato entrava aria fresca e uscivano le canzoni trasmesse dalla Virgin. Ai piedi, sopra il freno e la frizione, portavo gli anfibi sporchi della polvere bianca di gesso dello sterrato della festa e mi sentivo ancora addosso il profumo dolce delle frittelle incrostate di zucchero, quello grasso delle salamine e l’afrore ambiguo, resinoso e denso del fumo della cannabis.

Avevo girovagato in lungo e in largo per trovare una via e un civico che non ricordavo. Avevo setacciato tutti gli agglomerati di casupole e baite del circondario parcheggiando in perlustrazione esclusivamente perché una facciata o la piazzetta con la fontana mi ricordavano l’approssimarsi di casa sua.

Nella mia testa c’erano le ultime parole smorzate del nostro distacco o gli attimi di idillio di una domenica pomeriggio sul suo divano con la coperta. C’era la finestra solitaria che affacciava bianca e opaca sul freddo invernale e lui che mi diceva vieni qui con me a guardare la pioggia.

Cresceva il panico e albeggiava e cominciavo a incrociare qualcuno del paese. Chiedevo: Sa per caso dove abita Nicola?

Un vecchietto mi guardava e diceva no no, omertoso. Un ragazzino domandava alla nonna. Lei si affacciava all’ingresso asciugandosi le mani sul grembiule fiorito stretto ai fianchi e diceva sì, ma che stava nella frazione vicina: devi tornare giù un pezzo e prendere quella strada. Fai la curva a gomito, poi c’è il tornante. Vai avanti ancora dopo la legnaia. Lì abitano i suoi genitori, dove c’è quel campo, vedi? Lui invece sta un pezzo più su.

Chiaro. Pensavo di tornarmene a Brescia e buttarmi a letto e che andasse a farsi benedire. Invece mi affacciavo al parapetto della chiesa e fumavo una sigaretta nella foschia guardando la vallata.

Sotto, di fianco all’oratorio, c’erano le pedane silenziose e gli stand per la festa di fine luglio allestiti per un terzo. Era un lavoraccio, mi aveva detto, perché ogni anno i volontari che se ne occupavano erano sempre meno.

Tornavo in macchina e accendevo il riscaldamento, le cosce fredde di umidità, la pipì che premeva e il serbatoio in riserva. Non esisteva, che mollassi.

Trovare il suo portone era stato come assistere a un miracolo: capita. Il citofono aveva strillato un verso da paperella isterica, poi un altro e un altro ancora. Il mio pugno sulla sua porta, su, facendo i due piani di scale con le ginocchia stanche, aveva quel rumore sordo di legno oltre a cui paventavo una casa vuota.

Quando mi aveva aperto mi aveva domandato: Ma che ci fai qui? Sono le cinque del mattino. Sei matta? con uno sguardo di marmo, la fronte in guerra. Mi era salito in gola un acidulo desiderio di lacrime. Poi mi aveva abbracciata e avevo sospirato il suo tiepido odore di sonno. Mi aveva messa nel letto, rimboccato le coperte e carezzato i capelli: Dormi, sei stanca e baciata sorridendo.

 

Al rientro dalla caccia al Leopardi, a mani vuote e con la Bessi rattoppata da un meccanico del posto, ero tornata in albergo. Avevo una bella stanza con l’arredo moderno: una specchiera, l’armadio, la scrivania con la tv, il bagno con una doccia enorme, il balcone su cui uscivo a guardare l’orizzonte di campi verde e giallo e il transitare delle nuvole.

Ero allegra, dopo cena; avevo giocato a biliardo con la coppia di ragazzi modenesi e toscani e con il signore vicentino con cui mi trovavo sempre senza orario a chiacchierare e ridere e bere grappa nel portico con i divani di vimini. Ricordo Sonia che aveva gli occhi grandi e scuri da cerva e la treccia lunga di capelli sulla spalla abbronzata. Il suo ragazzo, invece, le unghie nervose, gli occhi trasparenti del bugiardo e una linea sottile al posto delle labbra, con quell’andatura molle e il sorriso imbarazzato.

Mi ero infilata tra le lenzuola e nel mio svagato dormiveglia c’era stato un secco battere di mani ai piedi del letto. Uno soltanto, come un richiamo, uno schernire sarcastico. Mi aveva irrigidito la schiena come uno schiocco di frusta e fatto rizzare i peli delle braccia, gelandomi.

Ma perché devi sempre fare quella forte? mi aveva chiesto, come addossandomi una colpa.

Avevo pensato di andare a dormire nella hall dell’albergo, che anche il divano andava bene.

Credo che fosse stato un fantasma rannicchiato tra il mio cuore e la mia testa. Il pensiero di Nicola, che mi aveva cercata fino a lì, trovandomi.

Il fantasmaultima modifica: 2019-04-28T22:33:45+02:00da rossololita5
Reposta per primo quest’articolo